venerdì 27 aprile 2007

Nuovi linguaggi, nuove possibilità

Leggo da sempre con molta attenzione quanto scritto da Eugenio Scalfari, e come succede in confronti normalmente intelligenti, condividendo e non le sue opinioni.


Le osservazioni sul mondo dei navigatori di internet, riportate nell'articolo che richiamo nel collegamento, sono uno spunto utile per fare insieme qualche ulteriore riflessione.


Molti hanno scritto sull'argomento, esprimendo punti di vista diversi, spesso contradditori, ma in ogni caso interessanti, perchè il fenomeno esiste e vale la pena continuarne l'osservazione.
Ha ragione Scalfari quando dichiara di temere un rischio di imbarbarimento espressivo e quindi del linguaggio corrente, ma trascura alcuni aspetti che invece mi piace richiamare.
Io sono il tipico rappresentante di chi è anziano, o sulla strada di diventarlo, e che vive un presente pieno di novità e di diversità, nelle quali e con le quali bisogna quotidianamente confrontarsi.
Ma fatta la premessa che la cosiddetta normalità ha da sempre una accezione di prevalenza numerica, e quindi discutibile nei contenuti, il mio sforzo ricorrente è di riuscire contemporaneamente a combinare da un lato la gelosa conservazione del patrimonio del mio vissuto passato e dall'altro la giornaliera curiosità dell'esplorazione dell'attuale (non voglio chiamarlo moderno per non incappare in affrettate definizioni di miglioramento improprio).
Questo per non avere comportamenti da "reduce", che considera sempre migliore il passato che il presente, e che si priva in tal modo di nuove possibilità di arricchimento di conoscenze.
La circostanza che mi trova a pubblicare su di un mio blog le mie opinioni è la prima dimostrazione di quanto sia importante poter contare su una possibilità tecnologica, che mi permette di rendere facilmente leggibile la mia scrittura e i miei scritti.
Se questo non è, come nel mio caso, semplice narcisismo, bensì un modo per rendere visibili a me stesso prima che agli altri i miei pensieri, per riconoscerli e riconoscermi meglio, allora possiamo godere di una nuova libertà che non ha aggettivi.
E' altrettanto sensazionale, e comodo, che io ogni mattina possa scorrere i siti web di una ventina di testate giornalistiche italiane e straniere per avere una visione sufficientemente completa dei fatti del mondo.
Se qualcuno obietta che leggere notizie significa solamente acquisire informazioni, e non costruire opinioni approfondendone i contenuti, rispondo che oggi sono i media, stampati e non, a rendere le notizie oggetto di rapido consumo, quasi monouso, e che comunque è molto meglio introitare semplici informazioni e notizie che vivere nel buio cognitivo.
Se, come ha scritto qualcuno, ogni viaggio comincia con il primo passo, anche il cammino delle conoscenze comincia con la prima informazione, il primo stimolo, la prima curiosità.
Quando iniziò a diffondersi il windsurf i puri della vela snobbarono la sua invenzione, ritenendola inadatta alla "nobiltà del navigare".
Gli ottimisti considerarono l'approccio con la tavola a vela come l'occasione per crescere e passare obbligatoriamente allo scafo tradizionale.
Non successe nulla di quanto si pensava o temeva: successe però che folle di sportivi, che prima di allora avevano visto il mare solo in cartolina o dalla sdraio della riva, ora potevano, e possono, affollare le acque e goderne le bellezze.
Quanto poi al rischio di imbarbarimento del linguaggio Scalfari ha ragione, ma all'impoverimento della lingua parlata e scritta siamo arrivati perlomeno da un paio di decenni. Da quando cioè la comunicazione è stata intesa come una sintesi pubblicitaria di slogan e immagini per attrarre emotivamente i clienti, i compratori, il pubblico.
Si è ormai consolidata una abitudine a poter fare a meno di usare tutti i 1.000 o 1.300 vocaboli che dovrebbero costituire il corredo lessicale di ognuno di noi, limitandoci a disporre di non più di qualche centinaio.

Siamo stati spinti a considerare il tempo disponibile come una risorsa da riempire di inutilità gergali, nelle quali riconoscersi in una falsa aggregazione di persone che hanno in comune una unica grande tristezza, che è quella di essere soli in mezzo a tanti.
Comunichiamo per micro modelli linguistici, che di linguistico hanno ormai poco perchè strutturati con la stessa logica del questionario.
L'informatica e la lingua dell' international business ripropongono anche nel nostro paese uno standard comunicativo che ha sempre contraddistinto gli Stati Uniti: una multietnia diffusa e lo sviluppo multinazionale delle imprese americane ha imposto una lingua scarna, con molti neologismi, spesso simili a ideogrammi fonetici, per consentire a diverse nazionalità una assimilazione efficace di istruzioni e addestramento per tecniche, norme e procedure.
La prevalenza di una anglofonia impropriamente ostentata certamente cannibalizza la nostra lingua e la impoverisce inutilmente, la rende quasi gutturale da quanto è densa di citazioni straniere inopportune.
Senza cedere a sciocche tentazioni autarchiche, (ma si importa quando serve e quando è meglio), ben vengano iniziative come quella spagnola, che proprio Repubblica cita, e che richiama la attenzione di tutti sulle parole da salvare, diffondendo la consapevolezza che la nostra lingua, come le altre, corre il rischio di naufragare con pochi superstiti.
Ben venga il "globenglish", se riesce a essere uno strumento trasversale per accomunare e condividere, per arricchirsi l'uno con gli altri, ma certamente è da evitare il grande rischio che Scalfari teme e che è quello che minaccia il nostro futuro: la perdita della conoscenza, della cultura, della capacità di ragionare.
Se internet è, come molti affermano e io stesso condivido, una enorme libreria virtuale con montagne inscalabili di informazioni, bisogna continuare a spendere impegno per insegnare in tutte le occasioni possibili a distinguere, a capire per scegliere, come si fa appunto in una libreria quando vi si accompagna un ragazzo.
Se leggere libri, classici e attuali, ha ancora un valore, dobbiamo essere esempio, verso noi stessi e tutti coloro ai quali teniamo, per far continuamente capire che non si opera, nè nella attività lavorativa nè in quella personale, per semplice imitazione di modelli stereotipati, bensì attraverso la padronanza dei fondamentali della conoscenza, del sapere e del fare.
Comunque è una buona occasione. Anche attraverso internet !

Il pianeta che parla globenglish | L'espresso

Il pianeta che parla globenglish L'espresso

venerdì 20 aprile 2007

Multietnia: un grande lavoro ancora da fare

Ho avuto la fortuna di nascere in una città, Trieste, nella quale la convivenza multirazziale e multietnica è stata sempre una caratteristica portante del modo di esistere.

Là ho vissuto i primi vent'anni della mia vita, prima di diventare un emigrante a mia volta e girare per l'Italia e il mondo, inserendomi in contesti sociali e nazionali che non erano connaturati con le mie origini.
La capacità di adattamento alla quale sono abituato nasce dal fatto che sin da bambino ho imparato che la diversità della gente costruisce grandi uguaglianze, in convivenze possibili e auspicabili.
Il panettiere sotto casa dei miei genitori era armeno, il dentista di famiglia ungherese, gli insegnanti polacchi, slavi, italiani, tedeschi. I compagni di classe italiani e cecoslovacchi, greci e via ancora così.
Esistevamo in un atlante animato, nel quale era normale vivere la diversità e riconoscerla, ricevendone in cambio una quotidiana lezione di rispetto che nasceva dalla naturale predisposizione a capire e non a contrastare.
Gli altri, e noi con tutti, altri a nostra volta, eravamo invitati alla grande occasione della conoscenza, dell'imparare abitudini non note, religioni non praticate, cibi e tradizioni non ancora scoperte.
Quando mi trovo, come ormai capita quotidianamente, a leggere e sentire di impulsi razzisti, di antagonismo etnico, nazionalistico e religioso mi chiedo i motivi della incomprensione e della non tolleranza.
Ripercorro i ricordi di quanto ho raccontato e tento di rammentare le difficoltà che all'epoca non trovavamo, nel convivere con altre realtà, così diverse e vicine allo stesso tempo.
Nel tentare di dare una spiegazione trovo che l'elemento fondamentale era proprio il "non fondamentalismo" di razza, nazionalità e religione.

La commistione non era vissuta e realizzata come una stratificazione schiacciante di culture e connotazioni sociali sottostanti o preesistenti, bensì come una rosa dei venti di culture convergenti, che diventavano potenti motori di arricchimento personale.
E' implicito che il primo periodo della vita dei giovani, quando lo studio è di per sè una costruzione, non ancora subordinata alla logica degli interessi economici personali, favorisce una convivenza collegata e socializzante a prescindere dalla rispettiva provenienza.
E' altrettanto condivisibile tener conto che in quei periodi i media non avevano la attuale potenza nel notificare le differenze e sottolinearne gli antagonismi.
Ma malgrado queste puntualizzazioni la mia è una testimonianza che "diversi si può", e che certamente il vivere in un'epoca nella quale le differenze di informazione e di distanza si annullano deve rappresentare un vantaggio da utilizzare.

Ma torniamo alla banale conclusione di tutti i nostri giorni, che vede nella radicata incapacità di parlarsi la causa di un disagio diffuso, e nel confrontarsi per sottolineare le differenze, senza capirle, la molla di ogni conflittualità.
Ognuno deve riconoscersi e dichiarare le proprie origini, senza temere di essere meno di altri, ma convinto di poter essere incastro di mondi nuovi e senza per questo annullarsi, nei quali tutti i diversi, perchè ognuno di noi appartiene ad una più o meno numerosa diversità, sono parti ricche per nuovi condivisi progetti .
Mi piacerebbe disegnare con la matita di un bambino queste idee: espiantare le nostre radici, farle uscire orgogliosamente allo scoperto e capovolgerle, per diventare alberi nuovi, con rami ancora più forti, sui quali far posare e crescere le nostre nuove idee, e tanto grandi da dare ombra tranquilizzante ai nostri nuovi ideali.





lunedì 2 aprile 2007

Mamma ho perso il mio credito!

Pensiamo spesso che i fatti sgradevoli siano privilegio degli altri.
Succede così anche per le malattie, figuriamoci per i fatti comuni.
E' capitato anche a me: hanno clonato la mia carta di credito tentando di effettuare un paio di transazioni da un altro paese, la Thailandia, per un totale di circa 2.000 euro.

Fortunatamente la società emittente della mia carta ha posto in essere, come altre, un sistema gratuito di alert via sms che avvisa il titolare di ogni richiesta di autorizzazione inoltrata e quindi preliminare a ogni conseguente procedura di addebito.

E' inutile descrivere tutto l'iter necessario per provvedere al blocco immediato della carta.

Malgrado i Numeri Verdi che anche in questo caso provvedono a funzionare come ancora di salvezza, vera o presunta, ci si imbatte sempre con il solito ostacolo rappresentato dalla difficoltà di parlare con qualcuno al telefono.

In realtà tu parli, ma chi ti risponde è una voce sintetizzata, che ti guida all'interno dei rami dell'albero del menu che ogni sistema di risposta automatico ha ormai al suo interno.

E tu digiti e non parli, ma ascolti e digiti ancora per trovare la sottosezione del menu che, deduttivamente, ritieni essere più compatibile con la tua urgente necessità.Non importa si tratti del telefono che non ti funziona o della tassa dei rifiuti o del ritardato invio della rivista alla quale sei abbonato.


Tu stai con l'orecchio sull'auricolare e speri che qualcuno ti ascolti!
Ma sei tu, irrimediabilmente da solo, a sentire, come un naufrago nel mare dei tuoi problemi, la voce registrata alla quale non importa nulla di quello che ti sta capitando! A lei basta farsi sentire, ed è impassibile di fronte ai tuoi piccoli grandi drammi!

Finalmente ottieni il punteggio di pazienza e perseveranza che ti permette di parlare con un essere umano. Ma lui è una specie, suo malgrado, di risponditore automatico umanizzato.
Sta rispondendo non si sa bene da dove, sta in un call center che quasi sicuramente non è nella tua città, motivo per cui non puoi nemmeno tentare di umanizzare il rapporto parlando del tempo: lui di può ascoltare magari da Siracusa, dove c'è un sole da vacanza, mentre tu e il tuo problema state nella bassa padana con una nebbia tipo esportazione.

Ma alla fine tu risolvi il tuo problema e questo è quello che conta. Chi se ne importa del rapporto umano, tanto siamo abituati a farne a meno.

Ma torniamo alla carta clonata.

Qualcuno di estraneo, un tuo nemico sconosciuto si è impadronito del tuo magico codice, del tuo numero di carta o quant'altro, e ha tentato di derubarti usando la tecnica e la tecnologia.

Allora ti rendi conto che quel pezzetto di plastica, che è in realtà uno strumento di pagamento, è diventato in qualche modo la tua casa, che qualcuno ha tentato di forzare. E tu vivi questa violazione come chi ha patito un furto a casa vive l'odore dell'estraneo che si è appropriato della sua intimità e dei suoi beni.

E realizzi che malgrado adotti tutti gli accorgimenti che ti suggeriscono, quando prelievi contante da un Bancomat o compri un biglietto aereo su Internet, c'è sempre qualcun'altro che sa superare le tue barriere di protezione.
Esistono due diverse velocità del progresso tecnologico: quella del legittimo detentore e consumatore e quella che arriva un po' dopo, ma comunque arriva, di colui che usa il medesimo progresso per derubarti.

Proteggete Gente, proteggete...ma non era forse meglio il baratto?