venerdì 20 aprile 2007

Multietnia: un grande lavoro ancora da fare

Ho avuto la fortuna di nascere in una città, Trieste, nella quale la convivenza multirazziale e multietnica è stata sempre una caratteristica portante del modo di esistere.

Là ho vissuto i primi vent'anni della mia vita, prima di diventare un emigrante a mia volta e girare per l'Italia e il mondo, inserendomi in contesti sociali e nazionali che non erano connaturati con le mie origini.
La capacità di adattamento alla quale sono abituato nasce dal fatto che sin da bambino ho imparato che la diversità della gente costruisce grandi uguaglianze, in convivenze possibili e auspicabili.
Il panettiere sotto casa dei miei genitori era armeno, il dentista di famiglia ungherese, gli insegnanti polacchi, slavi, italiani, tedeschi. I compagni di classe italiani e cecoslovacchi, greci e via ancora così.
Esistevamo in un atlante animato, nel quale era normale vivere la diversità e riconoscerla, ricevendone in cambio una quotidiana lezione di rispetto che nasceva dalla naturale predisposizione a capire e non a contrastare.
Gli altri, e noi con tutti, altri a nostra volta, eravamo invitati alla grande occasione della conoscenza, dell'imparare abitudini non note, religioni non praticate, cibi e tradizioni non ancora scoperte.
Quando mi trovo, come ormai capita quotidianamente, a leggere e sentire di impulsi razzisti, di antagonismo etnico, nazionalistico e religioso mi chiedo i motivi della incomprensione e della non tolleranza.
Ripercorro i ricordi di quanto ho raccontato e tento di rammentare le difficoltà che all'epoca non trovavamo, nel convivere con altre realtà, così diverse e vicine allo stesso tempo.
Nel tentare di dare una spiegazione trovo che l'elemento fondamentale era proprio il "non fondamentalismo" di razza, nazionalità e religione.

La commistione non era vissuta e realizzata come una stratificazione schiacciante di culture e connotazioni sociali sottostanti o preesistenti, bensì come una rosa dei venti di culture convergenti, che diventavano potenti motori di arricchimento personale.
E' implicito che il primo periodo della vita dei giovani, quando lo studio è di per sè una costruzione, non ancora subordinata alla logica degli interessi economici personali, favorisce una convivenza collegata e socializzante a prescindere dalla rispettiva provenienza.
E' altrettanto condivisibile tener conto che in quei periodi i media non avevano la attuale potenza nel notificare le differenze e sottolinearne gli antagonismi.
Ma malgrado queste puntualizzazioni la mia è una testimonianza che "diversi si può", e che certamente il vivere in un'epoca nella quale le differenze di informazione e di distanza si annullano deve rappresentare un vantaggio da utilizzare.

Ma torniamo alla banale conclusione di tutti i nostri giorni, che vede nella radicata incapacità di parlarsi la causa di un disagio diffuso, e nel confrontarsi per sottolineare le differenze, senza capirle, la molla di ogni conflittualità.
Ognuno deve riconoscersi e dichiarare le proprie origini, senza temere di essere meno di altri, ma convinto di poter essere incastro di mondi nuovi e senza per questo annullarsi, nei quali tutti i diversi, perchè ognuno di noi appartiene ad una più o meno numerosa diversità, sono parti ricche per nuovi condivisi progetti .
Mi piacerebbe disegnare con la matita di un bambino queste idee: espiantare le nostre radici, farle uscire orgogliosamente allo scoperto e capovolgerle, per diventare alberi nuovi, con rami ancora più forti, sui quali far posare e crescere le nostre nuove idee, e tanto grandi da dare ombra tranquilizzante ai nostri nuovi ideali.